Premio Nobel per la letteratura nel 1948, Thomas S. Eliot è stato poeta, grande drammaturgo e critico letterari. Nato negli Stati Uniti nell’autunno del 1888 e scomparso a gennaio del 1965, lasciò l’America nel 1914 per trasferirsi in Inghilterra, diventando poi cittadino britannico. Dovunque fosse, però, notava e declamava in versi lirici come la bellezza possa esistere a fianco dello squallore. Contemporaneo di James Joyce, Eliot usò il metalinguaggio, scrisse poesie moderniste e si affiancò ai momenti migliori delle arti del suo tempo: cubismo, surrealismo, dadaismo, astrattismo, futurismo, psicoanalisi ed esistenzialismo.
Annig Raimondi sceglie di mettere in scena e interpretare la magnifica traduzione di Roberto Sanesi de La terra desolata, scritto nel 1922, convalescente da un esaurimento nervoso. Da ben 14 anni la replica ovunque ci sia gente desiderosa di ascoltare questi versi fortissimi, spesso incomprensibili, impossibili da tradurre quando ai concetti si inserisce il latino o altre lingue antiche. Coltissimo, Eliot non lascia indifferenti e anzi ammalia, forse crea dipendenza se dopo tanti anni Annig Raimondi riesce ancora a fare il tutto esaurito come è accaduto al Teatro Olmetto di Milano nei giorni scorsi. Piccolina ma fortissima sul palco, recita e si dirige con maestria e nei camerini, alla fine, mi sorride con dolcezza e simpatia, ancora truccata.
Credi che il pubblico desideri capire Eliot?
La terra desolata è un testo anomalo, rispetto a Elliot. La sua poesia è un lampo dell’immagine, oppure devi seguire ‘gli uomini vuoti’, così come ha ripreso Borroughs: spezzare, frantumare, ricostruire. Oppure seguire una struttura, sul filo della memoria, attraverso spazi, colori, ritmi completamente diversi.
Perché fa tanto effetto riascoltarlo, oggi?
T.S.Eliot con questo testo era entrato completamente nell’impatto emotivo e non intellettuale, là dove ti perdi, ti devi abbandonare e ti colpisce da un’altra parte. Quando lo leggi o lo vedi sei stimolato, colpito, confuso, però vuoi andare a rivedertelo: tantissima gente fa così e l’ho rivista, in tutti questi anni di teatro.
Come mai hai scelto di recitare in monologhi colti?
Seguo sempre più questa linea: anziché la necessità di far capire, bisogna essere visionari. Poi in Eliot c’è sotto una sua logica e ognuno può trovarvi una sua interpretazione, visto che in fondo lo spettacolo ha colpito.
Beh, c’è anche un linguaggio incredibile! E’ difficile pronunciarlo?
Infatti, anche se lo prendi in mano ha questi sbalzi nella lingua, da un punto di vista letterario. Io ho cercato di giocare col teatro un già rappresentato, stratificato in noi. Considero questo testo un modo per ripercorrere la storia dell’uomo nella sua frammentazione, non nella sua linearità.
Trovi analogie con James Joyce, in Eliot?
Sì, ci sono degli echi che si avvicinano, nonostante la loro diversità. Questo desiderio di abolire la strada sicura per seguire percorsi diversi, che escano dalla parola scritta, che non siano soltanto letteratura ma che si materializzino: questo anche con Joyce accade, lo vedi che esce dalla pagina. In Eliot, comunque, c’è una carica teatrale: lui diceva che tutta la letteratura passa dal teatro e che tutto il teatro passa dalla letteratura.
Cos’altro ti piace di Eliot?
Riunione di famiglia, tradotto da Roberto Sanesi e Assassinio nella cattedrale sono i pezzi migliori. L’opera completa è riunita da Bompiani in due cofanetti. Elliott ha scritto tanti saggi sul teatro e tanta poesia, tuttora fonte di ispirazione. Il suo teatro non è stato fatto mai, o pochissimo, perché è complicato da mettere in scena: ci vorrebbero tanti attori e non è facile nella sua scrittura e composizione.
Vorresti allestirlo?
Ora ho un corso e vorrei mettere in scena Riunione di famiglia, dove un uomo ritorna nella casa dell’infanzia delle sorelle, dalle Erinni. Qualche volta è stato fatto Cocktail Party, che ha un linguaggio più colloquiale. Ma sono in dubbio: a me piace da morire Assassinio nella cattedrale, più trasponibile ma è anche un testo già cavallo di battaglia di grandi attori. Io però mi sento più avvantaggiata, avendolo fatto per tanto e letto molto.
Riproponi 'La terra desolata' perché non c’è altro da fare?
No, testi ce ne sono! Come il desiderio di sperimentarmi con altri autori, ma Eliot lo amo davvero, è nelle mie corde e ogni anno vedo che passa sempre qualcosa e questo ne fa un’opera importante. Piace a chi lo conosce e ai neofiti, che non capiscono nulla ma restano colpiti, lo ricordano.
Che altro vorresti fare?
Vorrei fare il Paradiso perduto di Milton, da tagliare perché lunghissimo. Anche Cantos di Pound, anche lì bisognerebbe farne un’estrapolazione. Quello che avevo fatto subito dopo la prima stagione di Elliot fu Kaddish, dedicato alla madre di Allen Ginsberg. Dopo ho messo in scena una raccolta di opere di Burroughs e infine cose scritte per il teatro. Ma mi rimane come un bagaglio gigantesco riportare in scena un’opera poetica, mentre un testo già pronto per il teatro è facile da allestire. L’esperienza mi ha concesso la capacità di decostruire e rimontare, che è una capacità che ti viene quando guardi all’opera teatrale in modo diverso.
Questo spettacolo, in scena da 14 anni, è cambiato nel tempo?
C’è stata un’elaborazione, nel senso che ho inserito frammenti, note e ho fatto modifiche sonore e un palco completamente ribaltato rispetto a quello ideato inizialmente. Un po’ a causa dei diversi spazi, girando nei vari teatri: da geometrico è diventato essenziale e, sfruttando il palcoscenico, questa scatola appare dal vuoto e vi inserisco quanto serve. C’è più lavoro di luci, oggi. Io sono sempre stata la regista.
Eliot offriva indicazioni, come nei testi di Beckett?
Non ci sono indicazioni di nessun tipo non essendo nato per il teatro, questo testo. E non esistono indicazioni di tipo temporale o spaziale. Ma io comunque non mi sento mai vincolata, a meno che poeticamente non sia necessario, come faceva Beckett, per quanto le sue indicazioni sceniche avevano un senso che oggi si potrebbe modificare, direi. In Elliot ci sono poche di queste cose: lui partiva dalla poesia e il suo concetto era molto alto, non legato a cose contingenti.
Insomma, fai tutto tu?
Tutto, per quanto abbia a mio fianco costumista, musicista, luci. Ma io ho sempre deciso tutto. Fulvio Michelazzi ha fatto scenografie e luci, il trucco l’ho inventato io, i costumi sono di Mir Lagziel, un israeliano che abita a Milano.
Hai lasciato il Teatro Arsenale, che avevi fondato. E ora?
Ho fondato da un anno e due mesi una nuova associazione, dopo essermi dedicata per anni all’Arsenale. Ma poi abbiamo rotto e la mia nuova compagnia oggi si chiama Pacta dei Teatri. Ho lavorato con Santagata, insegno, tengo diversi seminari e ho insegnato anche a Berna, alla University of Arts Hoch Schule: analisi del testo, teatro epico e arti marziali. Poi ne farò sulla voce e la parole, che mi vengono richiesti. Ho fatto il progetto Moravia: Gli indifferenti e Beatrice Cenci li ho messi in scena io.
Ti senti diversa?
Ora penso di più a fare il mio mestiere, fare regie e recitare, invece di dedicarmi anima e corpo a dare un peso all’Arsenale. E’ proprio una mia passione portare sul palco quegli autori che possono entrare in teatro, come quando ho portato Sartre, Moravia. Sono tutti discutibili ma sono portatori di un pensiero forte e sono viaggi che faccio io personalmente, oltre che farli fare al pubblico.
Ti resta tempo per una vita privata?
Ho due figli. Bisogna conciliare: quando dovevo dedicarmi all’Arsenale stavo via anche troppo, ma cercando di essere presente. Ora loro hanno 14 e 12 anni, vivono una fase delicata. Fulvio Michelazzi, mio marito, fa anche altro: allestimenti per moda, fiere e gli piace il teatro. E magari litigando lavoriamo pure assieme. Ho un’altra passione: lavoro strettamente a fianco di un compositore musicista, Maurizio Pisati, per riuscire a trovare una musica che non accompagni ma entri nella struttura drammatica. Proprio grazie a Roberto Sanesi, che lo conosceva, ha iniziato a collaborare con me.
E’ utile?
Serve ad aprire di più il linguaggio, che a volte è stretto. La musica allarga la dimensione drammatica, riesci anche più facilmente a scomporre strutture che sembrano convenzionali e chiuse. La parola può sembrare asciutta ma, con la musica, la parola si ribalta, sembra suggerire altro. Col suono la materia della parola si eleva al disopra della quotidiana comunicazione. E comunque è una scoperta nel lavoro. In teatro si tende all’accompagnamento mentre vorresti raggiungere la composizione scenica. E’ quanto stiamo esplorando con Maurizio Pisati.
Ultimissima domanda: da dove viene il tuo nome?
Annig è un nome armeno, ma io non sono armena. Credo sia uno dei derivati di Anna. Lo scelse mia madre che aveva un’amica con questo nome, lei era davvero armena ma noi siamo italianissimi.
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